La mia prima notte di novembre
Denudata
d'ogni nobiltà
mi richiudo
nei
miei poveri
cenci
per
assaporare
il piacere
d'essere
povera
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Era da
tempo che avvertivo la necessità di vivere una nuova esistenza, in armonia con tutto ciò
che fin dalla nascita della mia anima ho sempre amato.
Fu l'Etna, dall'alto della sua bocca, che accolse quel
canto disperato, ricordandomi che noi tutti siamo i veri artefici di un destino a cui non
siamo disposti a rinunziare, cos' mi chiamò in questa sua terra, cruda e indomata.
Da quel momento sarebbe stata l'Etna la mia vera grande
madre e potente padre.
Non è facile comprendere com'essa stessa è talmente viva
che non lascia neppure il tempo di percepirla, eppure è una montagna magica, poetica. È
un vulcano dalla misteriosa presenza. È un guerriero silenzioso, che coperto di mille
colori, combatte rassegnato. È un ambasciatore della stessa natura e che porta con sé il
patto della fratellanza... ed io ero solo due piccoli occhietti, pronti a meravigliarsi.
Non ricordo nulla di quella prima notte fredda di novembre
quando venni al mondo: l'unica certezza era che stavo per nascere guidata dal segno dello
scorpione, mentre la mia luna dormiva tra le braccia del cancro e il mio ascendente leone
chiese ospitalità a Plutone. Mentre Marte e Venere scelsero per me Acireale: luogo caro a
tutti gli Dei.
Gli anni '50 erano appena iniziati e si lasciavano alle
spalle i traumi della guerra, della fame e della sofferenza, ma erano anche gli anni in
cui l'intera Italia, cucendo velocemente le sue ferite, apriva le porte ad un nuovo
decennio di speranza e di benessere.
Ed fu lì, in una modestissima casa di Acireale che alcune
donne, con i volti illuminati dal lume a petrolio, sui fornelli a legna dell'ombrosa
cucina misero a bollire l'acqua in grosse pentole. Sarebbe servita per lavare il neonato
che stava per nascere.
Mancava all'incirca un'ora allo scoccare della mezzanotte e
le loro, attorno al letto della partoriente, si guardavano silenziose scambiandosi gesti
fatti con piccoli accenni degli occhi, quasi volessero con tutte le loro stesse forze
lenire le doglie della giovane donna che si lamentava.
E gli uomini di casa, con quell'aria apparentemente
tranquilla, nel far finta di nulla, tenevano le orecchie tese, all'erta, quasi a carpire
per primi, il vagito che squarciato quell'ombra di silenzio.
Era la notte del primo di novembre e mancava poco allo
scoccare della mezzanotte. Ero appena uno scarabocchio rosa e già delusi mio padre.
Immaginate che colpo: una figlia femmina!
Sarei potuta essere una divinità discesa dal cielo, non
era certo gioia pura quella che trasparì dai suoi occhi indignati.
Mio padre così tanto "preso" dal voler un figlio
maschio, provocò un impatto inaspettato con quella mia "mancata mascolinità"
che determinato in futuro non molto lontano solo il mio rimpianto di non averlo fatto
felice.
Per fortuna gli occhi celesti, che seguirono la discesa in
terra, fissarono nei miei il desiderio di fierezza e d'indomito coraggioso, e nel
frattempo mi colmarono di dolcezza, comprensione, passionalità e amore per la vita.
Man mano che i giorni trascorrevano crescevo con
quella voglia che mai più m'avrebbe lasciata. Le forze e la voglia d'avventura crescevano
assieme alle gambette, che già mi reggevano bene da un bel pezzo, e con esse cresceva
anche una sconcertante voglia di annusare nell'aria quel sapore di vento tra i grossi vasi
di basilico, che spandevano l'aroma delle loro larghe foglie.
E in quella vecchia casa di paese, quasi tutte le stanze
s'affacciavano su un grande cortile e da qualunque lato io guardarsi, gli occhi si
fermavano in uno dei quattro angoli della piccola cisterna, nera e solenne.
I due gradini di pietra lavica la circondavano al centro
dell'ampio spiazzo, così da farla sembrare più grande di quanto in realtà non lo fosse.
E per me il primo viso amico fu quello dell'uomo della casa
accanto. Un vecchio pensionato, era stato dirigente del Dazio. Un uomo più temuto che
rispettato che in me, una bambina a dir poco di scarsa eloquenza, trovò l'occasione per
colmare le sue lunghe e tristi giornate, ed io in lui trovai quel qualcuno che
riempisse le mie.
Fiorì così nella nostra esistenza un nuovo e diverso
interesse per la vita, anche se la sua volgeva al tramonto e la mia era appena sbocciata.
Fu un maestro insuperabile ed io la sua migliore allieva.
Ricordo com'era capace di farmi sgranare gli occhi ogni volta che mi raccontava sempre le
stesse favole.
Le conoscevo tutte, parola dopo parola, eppure ogni volta
che me le raccontava stavo attenta così come la prima volta che le ho udite. Badavo
bene di tenerle a mente per non dimenticarle mai.
Come mai più dimenticai la sensazione che provai davanti a
quell'organza bianca coi piccolissimi fiori ricamati. Era un piccolo pezzo di stoffa, che
tra le mani di mia madre e i miei occhi, via via prendeva sempre più la forma di un
vestito per la festa. Ogni piccolo fruscio accompagnava un battito, sempre più
accelerato del cuore e con aria di soddisfazione qualche giorno dopo lo indossai toccando
con soddisfazione quel grande fiocco annodato dietro la schiena.
La mia vita: era la vita di questa aliena presenza, sospesa
tra anima e materia. Una vita che cominciava a nutrire una grande fiducia verso
quell'esistenza che già m'apparteneva e con essa lo spicchio conturbante di luce che al
risveglio attraversava la penombra della stanza in cui dormivo e brulicava di piccoli
fermenti vivi. Erano nuvole di borotalco appena sparso sulla pelle o mosche sulla
marmellata.
Limmaginazione ed il fantastico erano gli amici più
cari, compagni inseparabili dei giochi con i pupazzi fatti di strofinacci, sottratti di
nascosto alla nonna in cucina, e delle lattine di conserva di pomodoro, usate la domenica
per fare il sugo con la carne e le patate. Tutto questo era il prezioso arredo per la
casetta della mia bambola, fatta con la scatola delle scarpe, presa in prestito dal
comodino di papà.
Nel frattempo gli anni trascorrevano lenti, lenti. Andavano
via con quella calma apparente, mentre lirrequietezza e la voglia devadere, mi
spingeva verso nuove strade da scoprire.
Amavo così tanto correre scalza sulla terra, anche se i
lividi spesso riempivano i gomiti e le ginocchia, ma il dolore era sempre meno importante
di quella voglia di scavalcare la finestra che dava sul tetto pieno di tegole: lassù
tutto diventava realmente possibile ed io ero un gatto da salvare, oppure un tesoro da
scoprire.
Da lassù il mondo mi regalava quegli orizzonti che
soltanto da lì potevo guardare che non erano gli stessi che c'erano nel cortile che il
triciclo permetteva l'unico svago. Da quell'altezza potevo vedere la maestosità delle
ortensie fiorite. Solo da sopra i tetti inventavo le avventure più fantastiche, e
improvvisamente lacqua della cisterna diventava mare immenso e infinito e
lalbero di fico era il castello incantato in cui scorgevo nani e folletti, fate e
principesse.
Avevo all'incirca tre anni quando per la prima volta mia
madre mise tra le mie braccine magrissime un morbido fagottino bianco che, non appena
aveva intuito il "cambio di mano", scoppiò in un pianto minaccioso
provocandomi un forte senso di panico nei deboli timpani. La reazione fu che abbassai
immediatamente le braccia e nello stesso tempo vidi la bocca della mamma torcersi in una
spaventata espressione. Senza rendersene conto mi diede un tremendo ceffone che mi fece
perdere contatto con la realtà.
So soltanto che mi ritrovai nascosta sotto il letto come un
gattino ingiustamente punito. Fu quella sorta di "fagotto bianco" a mettermi
davanti alla prima e complicata operazione matematica che avrebbe tracciato poi le
decisioni esistenziali: la divisione degli affetti che sottrassero negli anni i miei e che
via via addizionarono altri fagottini, moltiplicando problemi che per quanto fossero
inutili infantilismi mi portarono ad essere fragile e timida ed a chiudersi sempre più in
me stessa.
Per mia sorella, durante tutti gli anni dell'infanzia
con-divisi un oscuro sentimento, che oggi potrei dire scuro rancore infantile.
Non la sopportavo e, a maggior ragione, quella sua testa piena di riccioli neri. Mia madre
ci perdeva proprio tutto il suo tempo a pettinare la sua testa e a far diventare quei
ricci cannoli ossia morbidi tunnel che poi scendevano sul collo. Per me a
stento solo due colpi di pettine, tre righe sulla sommità della testa e da sotto uno
stupido ciuffetto scendevano i biondastri capelli, più dritti di spaghetti crudi appena
buttati nellacqua bollente. Con quel largo fiocco bianco sembravo una piccola
antenna parabolica.
Allora possedevo nel cuore il mio tenero affetto: Paolo
Borzì. Lo vidi nella culla e nel frattempo, aspettando che crescesse, esprimevo il mio
amore con l'unico modo che conoscevo, mettendogli in bocca tutto ciò che avevo in mano.
Un bottone per fortuna gli fu levato in tempo prima di soffocare. Poi c'era suo nonno Don
Carmelo ...che poi, per adozione reciproca, diventò anche il mio.
Intanto la mia, vita discreta e silenziosa, cominciava ad affacciarsi come una primavera
che vuole arrivare potentemente carica. Era con lo spirito d'esploratore che con me
diventava ogni giorno più forte la voglia di scoprire cosa succedeva fuori dalla casa.
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