A volte il desiderio di guardare era più forte
della stessa paura. Un giorno accadde, lo ricordo bene, che mi ritrovai, con tutta la
forza che avevo addosso, di spingere una porta di legno tarlato, una volta colorata di
verde. Tutte le volte che avevo provato a guardare dentro dalle piccole fenditure non
riuscivo a scorgere nulla.
Uno stridente cigolio spezzò il silenzio del primo mattino
per fare posto allo spicchio di luce che presto illuminò a cono la stanza buia: un
modesto magazzino che puzzava di muffa.
Il desiderio struggente da un lato, e la paura dall'altro,
era quello di riuscire a tutti i costi d'entrare a pieni mani dentro quell'universo
invisibile, ben nascosto, profondo, ma racchiuso nell'abbraccio del mio sguardo in
fermento.
Ero già pronta a dominare la volontà di agitare quella
manina e vedere tutto andare per aria.
Appena entrai fui investita subito dal fetore nauseabondo
che svaporava dalle suggestive ceste intrecciate di canne: aglio bianco e rosse e cipolle.
Con le orecchie, più tese di un cane in punta ero là,
spaventata. In piedi e con le manine aggrappate su l'orlo del corto vestitino bianco,
arricciato in vita, e il cuore che battendo in fretta si fermava all'improvviso dentro il
petto. Un'ape subito entrò ronzante a spezzare quell'ala di silenzio e il raggio di sole
prese a danzare flemmo flemmo sul nero pavimento.
In quel momento mi sentii come un eroe delle favole. Avevo
appena scoperto un tesoro e, per la prima volta impersonai, su di un manico di scopa tra
le gambe, quel fiero e impavido cavaliere che, a passo di trotto, scopriva tutti i
contorni di un mondo fino ad allora inesplorato.
Fu così che conquistai il mio trono, fatto di sacchi di
ceci, fagioli e di patate. E fu così che mi chiesi se ero un Re o una Regina? Il re
certamente contava più potere di una regina, ma la regina è sempre più bella di un re!
Insomma risolsi il mio primo dilemma interpretando prima uno e poi l'altro ruolo. Senza
rendermi conto avevo già gettato il mio primo seme della discordia. Certo era che non
capivo come stavo per affrontare il primo grosso problema della mia vita.
Volevo essere un re attorniato da buoni sudditi ...ma
dov'erano se neanche il gatto aveva avuto il coraggio di venirmi appresso?
Questo non mi fece scoraggiare. Qualunque cosa avessi avuto bisogno dovevo semplicemente
attingerlo in quel pozzo che si chiama fantasia: se non c'erano dovevo semplicemente
inventarli.
La risposta a questa inevitabile domanda si presentò
subito con una scia di piccole formiche: entravano ed uscivano da un piccolo foro tra le
mattonelle di terracotta del pavimento. Non ne avevo mai viste così tante e di diversa
lunghezza e grossezza.
L'interpretazione della vita umana cominciava a prendere
senso con la ripetizione proliferante e ondulatoria di quel moto che sembrava ripetersi
all'infinito. Mi misi a pancia in giù e con il viso ben stretto tra i palmi poggiati sui
gomiti puntati per terra, ebbi un bel da fare nell'osservare l'attenta sincronia, ordinata
e laboriosa di quel delirio collettivo.
La striscia dei soldatini, in fila per uno, uscivano dalla
tana con il dorso vuoto e tornavano sempre in fila per uno con un chicco o un fuscello
sulla testa.
Il cuore mi si spezzò davanti a tanta dimostrazione di fatica e mi resi conto che io non
riuscivo ad alzare neanche una bottiglia d'acqua molto più piccola di me? C'era qualcosa
che non mi faceva comprendere l'esatta dimensione delle cose... e mai, come allora, il
mondo delle piccole creature divenne il centro di una nuova passione.
Mi sentii fortemente motivata ad aiutare il temerario e
snervante lavoro di quelle povere bestiole. Sentivo che per me non costava fatica
avvicinare attorno alla buca ciò che andavano cercando in giro. Sarebbe stato un prezioso
aiuto per le formiche.
Con le dita sbriciolai il piccolo pezzo di pane che avevo
in tasca, poi raccolsi una bella manciata di molliche e con santa pazienza cominciai a
cacciarli dentro la loro tana.
Spaventate dalla forzata intrusione, mi ritrovai improvvisamente con la mano in aria.
Fui impressionata dalla reazione di un gesto spontaneo che aveva arrecato un turbamento a
quell'innato equilibrio.
Qualcosa di sconosciuto aveva turbato la stessa esistenza e adesso l'azione ricadeva sulla
mia mano che già brulicava di minuscole creaturine, masse nere che correvano
all'impazzata.
Il pensiero andò subito a riflettere un'identica situazione: cosa avrei fatto se mi fossi
trovata sul palmo di una mano grande e grossa... io così "minuscola"?
Certamente mi sarei spaventata e morta di paura.
Quella sera, papà, come al solito stanco dal lavoro, era andato a dormire e mamma, prima
di andare a lavare i piatti, mi spogliò per mettermi a letto.
Cominciai ad osservare più attentamente e con occhi diversi le sue mani che nel toccarmi
creavano strane immagine. Non riuscivo a capire, erano mani tutto sommato piccole che mi
contenevano nella loro grandezza. Sapevo già che più di tanto non sarebbero più
cresciute.
Ero anch'io un animaletto nella sua tana. Anch'io ero nel
proprio guscio con una mamma che si prendeva cura di me, ma se io m'ero presa cura delle
mie piccole formiche sicuramente dovevano esserci da qualche parte altri mani grandissime
dove anch'io avrei potuto giocare sul suo palmo senza provare paura. Come avrei potuto
cercarlo io così piccola?
Era forse quel signore che tutti chiamavano "Dio"?
Non potevo vederlo, ma se riuscivo ad aprire bene gli occhi
avrei finito con il trovarlo.
E per trovarlo dovevo guardare altrove.
Finii presto col disinteressarmi delle formiche. Il fascino era scomparso per dare posto
alla monotonia di un percorso che si snodava sempre uguale. Allora l'attenzione si posò
prima sulle api che ben presto si rivelarono belle, ma troppo pericolose e pungenti e poi
sulle farfalle, che non riuscivo mai a toccarle. Ripiegai così alla cara e vecchia gatta
nera che più s'avvicinava al mio modo d'essere: indipendente e solitario.
Avevo già quasi otto anni quando il ronzio della zanzara mi svegliò dallo stato
d'intorpidimento. Mi ritrovai distesa per terra e non nel mio letto.
Ero avvolta dalla fresca sera d'estate. Da qualche tempo avevo preso l'abitudine, la sera
dopo cena, di prendere il cuscinone che copriva il mio divano-letto, stenderlo per terra,
sullo stretto e lungo balcone di casa, e stendermi sopra.
Non m'importava degli strilli che faceva la mamma che non
capiva il perché volessi stare per terra senza fare niente. Lei non avrebbe mai afferrato
quel desiderio di specchiarmi nel cielo.
Ero una vena d'acqua che cercava la sua
uscita per ricongiungersi al mare.
Era li che, con gli occhioni spalancati, tutte le sere il
teatro della mia vita, sospeso nel nulla, dinamico, affascinante, riflesso di una realtà
più grande che si disperdeva in un chiacchiericcio svolazzante... e le stelle così
vicine d'abbracciarle tutte in un solo sguardo e così lontane da non poterne toccare
nemmeno una.
C'era un punto particolare che mi attraeva, che si stampava come un enorme disegno contro
l'ombra della grande casa, ed aspettavo.
Valicare i fragili limiti della mia conoscenza per abbandonarmi in una precisa realtà di
sogni ad occhi aperti.
Aspettavo senza pensare, finché quella piccola fetta di melone bianco, a testa in giù
cominciava ad affacciarsi.
Dapprima molto grande e poi come un "bau settete" dalla veletta di nuvole che le
copriva gli occhi, mi guardava sorniona.
Era solo un momento.
Facevo tanta fatica a tenere gli occhi aperti per assistere
a questo breve spettacolo perché "lei" dopo un po' si stancava e si mostrava
imponente come una forma di pane appena sfornata, e saliva sempre più in alto,
allontanandosi, e diventava così piccola che se alzavo le braccia la potevo contenere tra
i palmi delle mie minuscole manine.
Nonostante la mia scarsa tendenza al dialogo
con gli "altri", tutte le sere, in quella posizione, imparai a formare un'unica
striscia con il bastone di ferro che completava il balcone di casa. Era come se il mio
corpo si congiungesse e diventasse elastico. S'allungava fino a toccare il punto più
lontano, poi alzavo le mani e cominciavo a toccare quei punti lucenti ad uno a uno.
Parlavo con loro. Somigliavano alle fiammelle delle lampadine che la sera illuminavano le
stanze.
Quante lampade "Dio" doveva accendere la sera per
illuminare tutta il cielo? Un seme pronto a germogliare esplose in un determinato momento
e con le mie stelle iniziai uno strano dialogo. Loro mi rispondevano con un linguaggio
mutante, vibrante, intrigante.
Come una danza lenta di lucciole mi comunicavano i contorni di quel panorama di perfetta
solitudine, un deserto di fiori bianchi, petali di neve, diamanti grezzi.
Erano tutte belle, sicure, altezzose come piccole regine.
La voglia di prenderle in mano e d'ignorare quelle domande che mi sembravano troppo grandi
per ricevere risposte sciocche da una piccola mente come la mia.
Una strana sensazione di pace e di isolamento partecipava con me a questa bellissima
rappresentazione senza provare il disagio di sentirmi piccola e impotente di fronte a
quello spazio senza confini.
Irrequieta e senza pace, riluttante iniziai a vagare attraverso gli orizzonti senza
confini di un fiume senza sponde alla ricerca di quel lumicino che sicuramente mi avrebbe
indicato la strada giusta.
Ero certa che la coscienza di una chiara ma lontana interiorità, nel suo sconsiderato
concedersi, cominciava a svelarmi qualcosa che non riuscivo a comprendere ma dentro di me
s'accumulavano messaggi preziosi che non riuscivo a rivelarlo agli altri perché non
sarebbero stato in grado di recepirlo.
Qualcosa di arcano: un seme di un frutto lontano.
La forza di un fuoco che evaporava in bolle di fumo leggero spinto verso l'alto e cenere
in basso per riprendere l'antico ritmo.
Un respiro tagliente, ma soffice come un soffio di vento gelato, alimentava la tenacia
dell'ardire e mi faceva abbandonare in pensieri sfuggenti, allegorici, invitanti
soffocanti come quelle verità mai chieste che crescevano dentro me attraverso forme
spettrali, furtive e gigantesche.
Come il sangue che fuoriesce da una ferita, intuivo che qualcosa m'attirava dentro i suoi
denti aguzzi di lupo.
Il mio dio non lo trovai mai su quella croce, sofferente e martoriato, ma nelle mille cose
che mi hanno provocato emozioni ed imparai ad accettare uno strano dialogo che avveniva
tutte le volta che alzavo gli occhi in cielo alla ricerca di un segno: e ...quanti ne ho
trovati.
|
|